Cambridge Analytica, un anno e mezzo dopo

Mark Zuckerberg ricorderà probabilmente il 17 marzo 2018 come uno dei suoi giorni peggiori: il primo in cui Facebook ha smesso di essere raccontata dai giornali (solo) come la geniale creazione di un prodigio ed è diventata invece un rischio per la collettività. Addirittura, per la democrazia. 

Era quasi sera, quel 17 marzo, quando il quotidano britannico The Guardian pubblicò le rivelazione di Christopher Wylie, il data analist che aveva scelto di diventare whistleblower, cioè di rivelare alcune pratiche in corso sulla piattaforma. Pratiche che avevano avuto un impatto su risultato del referendum sulla Brexit e sull’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti. Stava iniziando lo scandalo di Cambridge Analytica, dal nome della società  per cui lavorava Wylie, diventato nel frattempo familiare persino per chi non ha mai aperto i social network. 

Wylie, e poco dopo anche Brittany Kaiser, che a Cambridge Analytica era stata una dirigente importante, raccontarono infatti che l’azienda aveva utilizzato un’enorme mole di dati riservati per sottoporre gli utenti di Facebook a un’intensissima propaganda, finalizzata a influenzare le loro opinioni e quindi il loro voto su questioni cruciali (la Brexit e le presidenziali Usa, appunto).

I dati appartenevano agli utenti stessi e Cambridge Analytica ne era venuta in possesso attraverso un’applicazione chiamata “thisisyourdigitallife” che prometteva di produrre profili psicologici e di previsione del comportamento, basandosi sulle attività online svolte. L’aveva creata Aleksandr Kogan, ricercatore dell’università di Cambridge, anch’egli coinvolto nell’azienda. Quei dati avrebbero dovuto restare segreti, ma siccome per collegarsi all’app era necessario il Login di Facebook, e siccome all’epoca Facebook consentiva a società terze di raccogliere informazioni non solo di chi direttamente usava le app, ma anche dei suoi “amici” sulla piattaforma, “thisisyourdigitallife” fece in tempo a immagazzinare informazioni su un totale di circa 50 milioni di profili Facebook. 

Il Ted Talk in cui la giornalista dell’Observer e del Guardian Carole Cadwalladr racconta come ha iniziato a indagare su Cambridge Analytica, e cosa ha scoperto.

Cambridge Analytica li utilizzò quindi per creare dei dettagliatissimi profili psicosometrici in base ai quali decidere quali utenti “colpire” e con quali messaggi. La pratica è andata avanti per mesi, con un impatto ancora da verificare del tutto, fino alle rivelazioni di quei giorni. Alle quali Facebook reagì negando ogni coinvolgimento, salvo trovarsi costretta a fare diverse ammissioni: la possibilità di “targettizzare” gli utenti, la politica lassista sulla gestione dei dati e sulla privacy degli iscritti, l’aver registrato un crescendo di attività – finanziate, si sa oggi, anche dall’estero – che comprendevano la distribuzione di contenuti falsi. Senza alcun intervento per arginare, e correggere, i problemi.

Da allora è passato un anno e mezzo e nella percezione collettiva tanto il social network quanto il suo geniale creatore sono diventati campioni di opacità, reticenti a dire la verità e resistenti agli inviti delle autorità pubbliche a raccontare nei dettagli modelli e pratiche. La collettività ha iniziato anche a interrogarsi sulla piattaforma, un tempo considerata un innocuo passatempo e un mezzo per ritrovare amici e parenti: la capillarità della diffusione di Fabebook e la mole di dati che gestisce la rendono uno strumento di capace di aver un impatto profondo sui pensieri delle persone, sulle loro convinzioni e quindi, in sintesi, anche sulle loro azioni. Per esempio il voto. 

Il trailer del documentario Netflix The Great Hack, che segue gli eventi di Cambridge Analytica e racconta il ruolo di Brittany Kaiser.

L’argomento è complesso, e da allora si è complicato ulteriormente, perché sono venuti a galla molti altri elementi: per esempio l’importanza dei dati che, senza esserne totalmente consapevoli, disseminiamo in giro per la rete con ogni nostra azione. È difficile avere esattamente consapevolezza di quanti siano e di come possano essere utilizzati. Ma per avere un’idea si può ricorrere alle parole di chi, proprio per conto di Cambridge Analytica, lo ha fatto: Brittany Kaiser. Nel libro “La dittatura dei dati”, in libreria il 24 novembre, la ex dirigente dell’azienda racconta tutto per la prima volta. Una lettura assolutamente necessaria: anche per difendere la nostra idea di privacy e democrazia.