Due chiacchiere con la vincitrice del Premio per la traduzione HarperCollins Italia nell’ambito delle Giornate della traduzione letteraria 2019, dal 27 al 29 settembre a Roma
Caterina, raccontaci qualcosa di te: chi sei, cosa fai, quali sono i tuoi interessi…
Vengo da Fabriano, città che non mi ha fatto mai mancare né gli innumerevoli quaderni colorati su cui riversare il contenuto della mia mente spesso in fermento, né boschi, tramonti e occasioni di impegno pratico e sociale. Diversi altri luoghi mi hanno poi accolto e formato alla vita. Ho vissuto e studiato a Siena, Parigi, Modena, Parma, in Inghilterra e proprio ora mi trovo a Grenoble, città in cui sto ultimando i miei studi e che ogni giorno mi regala scorci impagabili.
Mi piacciono tanto le parole e le storie lette o raccontate da altri. Ballo, sono scout e ne condivido i valori, mi piace il lavoro manuale e mi interessa tutto ciò che ancora non conosco. Ho studiato Lettere e due anni fa ho improvvisamente virato verso il mondo della traduzione: se davvero esistono università che ne insegnano l’arte, mi sono detta, forse quei nomi che ho letto fin da piccola sul frontespizio di molti libri erano di gente comune, non di super-eroi con talenti innati o di talentuosissime persone bilingui!
Da quali lingue traduci? Il tuo approccio alla traduzione probabilmente cambia da una lingua all’altra: ci spieghi come e perché?
La lingua che prediligo è il francese, con la cui struttura rigorosa è possibile, comunque, giocare dolcemente. L’inglese è invece quella che conosco da più tempo, ma solo la sua letteratura, a cui mi sono avvicinata non molti anni fa, mi ha permesso di apprezzarla appieno. In generale tendo a rimanere più vicina al testo francese e meno a quello inglese, logica dettata non solo dalla struttura delle due lingue, più e meno simile a quella dell’italiano, ma anche dall’affetto che mi lega a esse.
Quando traduco, il testo si trasforma velocemente in immagini, concetti, idee. Poco importa quindi la lingua nella quale è scritto: essa appare per quel che è solo quando inciampo nei nodi più spinosi, quando la differenza tra la cultura di partenza e quella di arrivo è grande e il lettore, me per prima, fatica a immaginare ciò di cui si sta parlando. In quei casi osservo bene l’essenza del testo, ne guardo gli angoli più estranei e ne sviscero i possibili significati, fino a trovare una soluzione. Altre volte ho come la sensazione che per alcune parole o frasi ci sia un traducente perfetto, una parola o una perifrasi che il mio inconscio conosce ma che io sembro ancora non aver trovato. Allora aspetto, finché non viene in superficie: non riesco ad accontentarmi di un sostituto. Nel fare questo tipo di lavoro non trovo differenze particolari tra le due lingue con le quali lavoro, poiché è comunque l’italiano a dover essere alla fine “spalmato” sui concetti del testo di partenza. Ciò che più mi spiazza e al tempo stesso mi piace è scovare parole straniere così belle da non avere il coraggio di tradurle!
Come hai conosciuto il Premio HarperCollins Italia e cosa ti ha spinto a partecipare?
L’anno scorso ho chiesto ai miei genitori di regalarmi per il compleanno l’iscrizione alle Giornate della traduzione letteraria. In quei tre giorni, avvolta da un mondo per molti versi nuovo, ho toccato con mano la bellezza di partecipare al grande progetto di divulgazione, di cooperazione, di conoscenza, di contatto tra realtà diverse che è quello del tradurre. Il solo fatto di prendere parte al Premio HarperCollins Italia, che ho conosciuto proprio in quei giorni, ha significato per me iniziare a dare il mio contributo a questo progetto. Non nascondo, poi, che lavorare con le parole è il mio più grande sogno. Non è mai rimasto nel cassetto e anche se i sogni sembrano sempre fatti di una materia poco consistente, è bello tenerli sempre davanti a se, sulla linea dell’orizzonte, un po’ più in alto delle sopracciglia.
Pensi che tradurre sia un mestiere che si può imparare o che si tratti di un talento innato?
Come per molte altre arti, credo che provare interesse per la traduzione significhi avere una particolare predisposizione verso di essa, oltre che esserne affascinati. Penso che questa sia l’unica cosa necessaria in partenza, il resto è fatto di ricerca, piacere, esperienza e coraggio di osare.
Quali sono secondo te i requisiti che deve avere un buon traduttore? E quali sono gli elementi che “fanno la qualità” di una traduzione?
Il traduttore, a mio avviso, deve essere rispettoso e aver voglia di conoscere e crescere continuamente. È importante mettersi in gioco in prima persona, entrare nel testo, leggerlo una prima volta secondo il proprio punto di vista, permettendosi di giudicarlo secondo i propri canoni e parametri. Poi bisogna fare un passo indietro e rileggerlo per capirne l’intenzione e saper mettere da parte le proprie idee in merito. Io tendo ad applicare il sistema che mi hanno insegnato nel corso dei miei studi: mi chiedo dove vuole arrivare il testo, valuto gli strumenti che ho a disposizione e costruisco una strategia per dare forma a un prodotto che abbia lo stesso fine di quello di partenza. Poi mi lascio trasportare dal contenuto, cerco di conoscere il profumo, l’andatura e il carattere del testo, ne ascolto l’anima. Ed ecco che arrivo alla negoziazione, alla scelta di cosa mantenere e cosa lasciar andare. Questo è un momento delicato che richiede molta umiltà e rispetto. Chiede di mantenersi il più possibile coerenti con l’intenzione dell’autore e con il mantenimento dell’estraneità, per noi, di alcuni concetti.
Ora, le due qualità di cui faccio la mia bandiera in ogni ambito sono l’equilibrio e l’eleganza. A esse seguono grazia e bellezza. Benché queste non siano qualità essenziali, a parità di bontà di una traduzione possono fare la differenza tra testi che vengono letti con piacere o meno, o addirittura fare la fortuna di un libro. L’essenziale, secondo me, è salvaguardare l’intenzione, l’idea sottile che il testo veicola, le vibrazioni che emette. Con la lingua di arrivo poi si può giocare: giocare a jenga o a shangai, attenti a trovare i migliori equilibri. Poco importa anche il luogo in cui si traduce, purché metta il traduttore in una condizione di equilibrio interiore ed esteriore e sia, a suo avviso, bello. Io amo ad esempio il bosco o un angoletto della stanza semi-illuminato e ben arredato.
La non-fiction è un genere che frequenti abitualmente anche come lettrice? Che ne pensi? Dal punto di vista della traduzione, quali sono le maggiori difficoltà che si incontrano nel tradurre questo tipo di testi?
La non-fiction non è il genere che prediligo. Mi piace viaggiare con la fantasia, ma proprio per questo credo di avere bisogno di immergermi nella concretezza di questo tipo di testi. Sono certa che ne andrei a curare estremamente la forma, così che l’importanza del contenuto possa essere controbilanciata e sostenuta da uno stile elegante e intrigante, di cui non solo la narrativa ha bisogno! Tuttavia propendo sempre per il romanzo: mi piacerebbe tradurre un libro bello, la cui forma sia coerente con il contenuto.
Ritieni che iniziative come le Giornate della Traduzione Letteraria possano aprire nuove prospettive ai traduttori?
Ritengo che esse siano una fonte preziosa e deliziosa di stimoli, di condivisione e di ricarica positiva sia per chi è nuovo che per chi lo è un po’ meno nel mondo del libro e della traduzione.