Diventare grandi

    Un viaggio tra quattro classici della letteratura che ci raccontano cosa vuol dire crescere


    Immaginate: un giorno vi svegliate, aprite l’armadio, vi infilate una maglietta e quella non vi sta più. O ancora, vi schiarite la voce per chiamare un vostro amico che passeggia dal lato della strada opposto al vostro, e la voce che esce dalla vostra bocca non la riconoscete affatto.

    Diventare grandi è una gran fatica: che si tratti di osservare il proprio corpo che cambia o le responsabilità che aumentano, ha sempre a che vedere con la trasformazione, un’azione che ha in sé qualcosa di magico e spaventoso insieme. E forse è per questo che questo cambiamento, passaggio da una forma all’altra, diventa uno dei nuclei centrali della letteratura: la transizione dall’età dell’infanzia a quella dell’adolescenza, e poi dall’adolescenza all’età adulta, è raccontata in molti classici.

    Nel bel mezzo del deserto, un bambino chiede a un pilota d’aereo che ha appena fatto un atterraggio d’emergenza a causa di un’avaria al motore di disegnargli una pecora. Ma cosa ci fa un bambino in quel posto? Il piccolo principe si prende cura di angoli di mondo abbandonati, stringe amicizia con le volpi, parla con le rose conservate sotto una teca: abituato alla solitudine, la sua comunicazione con gli adulti si basa sullo straniamento. Cosa vuol dire essere grandi, e cosa non esserlo, quando si è persi nello spazio profondo?

    Sugli altri pianeti la prospettiva cambia: gli adulti che popolano Il piccolo principe sono perduti, confusi, arrabbiati, tristi: soprattutto, sono soli e incapaci a restarlo. Ma se l’infanzia è l’età dell’immaginazione, allora la solitudine è uno spazio privilegiato per costruire il proprio mondo: ed è quello che fa il piccolo principe, così come fa Mary Lennox insieme a Dickon, nel misterioso giardino del Castello di Misselthwaite. Tra le pagine de Il giardino segreto gli adulti non trovano molto spazio: nel giardino popolato dai bambini, in quello spazio segreto al di là del muro, ritorna possibile il reincantamento del mondo. Di nuovo i piccoli a salvare i grandi, i grandi a imparare qualcosa da loro.

    La tensione tra i due mondi – quello delle responsabilità, quello dei giochi e delle infinite possibilità – anima tutta la narrazione di Piccole donne: non bambine, non ragazze, ma una versione in miniatura di esseri umani adulti, le protagoniste del romanzo di Louisa May Alcott hanno a che fare con il primo drammatico scontro tra i propri desideri per il futuro e le aspettative che il futuro stesso nutre nei loro confronti.

    Il romanzo segue le sorelle March nel percorso della definizione del sé: una conquista identitaria che passa per l’accentuazione di tutti i difetti, per l’aderenza totale e cocciuta ai propri ideali ma anche per la gioia di cambiare idea, fare e poi disfare. La storia di Alcott è una storia di sorellanza: un sentimento fondato su una complicità profonda, capace di alleanze e mille guerre, un legame trasformativo che sostiene le piccole donne nel processo di trasformazione, nell’ingresso in società.

    Perché spesso di questo si tratta, nei romanzi di formazione: prepararsi a lasciare la bolla protetta – sia essa rappresentata dal proprio mondo interiore, sia essa lo spazio protetto della famiglia – per entrare in società. Lo sa bene Elizabeth Bennet, che nel suo percorso di crescita si trova a fare i conti con un’altra forza che scuote i giovani adulti fino alle fondamenta: l’amore. Orgoglio e pregiudizio, di nuovo due sentimenti intensi ed estremi, racconta di una ragazza non ancora ventunenne chiamata a rispettare le regole del mondo adulto per potervi accedere.

    Il romanzo tiene traccia di come il rifiuto totale di questo mondo (rappresentato dal matrimonio con il signor Darcy) si trasformi nell’accettazione prima e nell’aderenza poi: di come Elizabeth, sarcastica e distaccata, finisca per innamorarsi di Darcy e contestualmente per accettare di essere annoverata tra le schiere delle persone adulte.

    L’abbandono dell’adolescenza passa attraverso un rifiuto: diventare grandi non è un percorso pacificato, ma il risultato di uno scontro, di una lotta interiore ed esteriore.