La prima traduzione italiana di un’autrice e di un romanzo straordinariamente moderno.
Gli uomini non devono, per nessun motivo, prendere posto sul divano delle signore! Questa scritta campeggia in una delle stanze dell’appartamento di Nortullsgatan che ospita le protagoniste di Ragazze di città di Elin Wägner. Ma intorno a questa «prescrizione monastica», ammonisce la narratrice Elisabeth, «e in profondo contrasto con essa», sono raggruppate una serie di audaci riproduzioni, oltre a «un’eterogenea accozzaglia di poeti, attori e cortigiane, Madonne di Botticelli e le stesse zie di Eva».
Per cogliere la pasta di cui è fatto il romanzo e la voce che lo attraversa, e per entrare nel raffinato mondo di Elin Wägner (1882-1949), basta forse quest’immagine, su cui si apre il secondo capitolo dell’opera e che colloca la storia in un punto molto specifico dello spazio: due stanze in un quartiere periferico della città di Stoccolma, in Svezia, dove le quattro ragazze della Banda di Norrtull – questo il nome del quartiere – trascorrono circa otto mesi della loro vita. Sono giovani e impiegate, organizzano scioperi per migliorare le condizioni lavorative delle donne, si scontrano con una realtà maschilista e patriarcale, sorda e arrogante, sperimentando la fatica fisica e mentale. Fanno spesso la fame e tuttavia, quando a fine giornata si ritrovano a fumare e conversare nelle stanze private della casa, lontano dagli abusi di potere pubblici che subiscono quotidianamente, riescono a essere solidali e felici. «Felici», sottolinea la narratrice, «benché nessuna di noi fosse sposata».
Per una buona parte dell’opera si ha l’impressione che il romanzo, il primo di Wägner, sia ambientato in pieno Novecento, non oltre cento anni fa. Per le tematiche che affronta, per lo stile adottato, per l’ironia pungente che contraddistingue la scrittura: «Sospetto di avere uno straordinario istinto materno», afferma a un tratto la narratrice. «Forse dovrei cercare lavoro presso un orfanotrofio o mettere su un allevamento di polli».
Con sorpresa, invece, si scopre che Ragazze di città è il romanzo con cui nel 1908 Elin Wägner conferma il suo talento di narratrice, dopo aver pubblicato una raccolta nel 1907, diversi racconti su varie riviste e soprattutto essersi fatta notare come giornalista d’attualità sulla rivista liberale «Idun», per la quale, proprio nello stesso anno, intervista ad esempio l’intellettuale socialista Ellen Key, pedagogista e femminista di fama internazionale, o Signe Bergman, rappresentante di spicco dell’Associazione Nazionale per il Suffragio delle Donne.
L’autodeterminazione delle donne, la lotta per l’acquisizione di diritti fondamentali (su tutti, il diritto di voto), sono temi per cui Elin Wägner si batte con grande fermezza per tutta la vita, come emerge dal profilo della scrittrice efficacemente tracciato da Camilla Storskog nell’introduzione posta in apertura del romanzo. E che tuttavia non definiscono che parzialmente il suo attivismo: radicale pacifista, ecologista ante-litteram, anticapitalista, intellettuale a tutto campo, oltre che prolifica scrittrice. Dopo Ragazze di città, Wägner scrive oltre trenta opere; mai tradotta in Italia prima d’ora, non sorprende che di recente, in Svezia, sia stata riattualizzata come figura anticipatrice sui tempi, e che si moltiplichino gli studi a lei dedicati. Come afferma Camilla Srorskog, Elin Wägner si è distinta per il suo ruolo di «instancabile e irremovibile agent provocateur, un’intellettuale sempre interessata a smuovere le stagnanti acque della società del tempo, tanto nel suo ambiente locale e provinciale quanto a livello internazionale ed europeo».
Il caso di Ragazze di città, in questo senso, è piuttosto emblematico. Se da un lato restituisce l’immagine di un luogo e di un ambiente sociale confinato – la piccola borghesia che si muove tra camere in affitto, palazzi periferici e strade sgangherate in una Stoccolma disagevole («hai sempre la nausea quando arrivi a Stoccolma, prima di abituarti», dice Eva, una delle ragazze) – dall’altro si apre anche a una dimensione universale, attraverso la quale è possibile supporre che le quattro protagoniste del romanzo possano facilmente essere catapultate in una qualsiasi altra capitale europea. Elisabeth, Eva, Emmy e Baby non sono le sorelle March di Piccole donne: il racconto del passaggio all’età adulta non coincide, se non forse nel caso di Eva, con l’approdo a un confortevole equilibrio e con la soddisfazione delle aspettative proiettate dalla società. Assomigliano al contrario a un collettivo capace di sollevare questioni sorprendentemente attuali, subendone le conseguenze, talvolta drammatiche, con lucidità e ironia.
Ironia che Wägner stessa conosce bene, avendola affinata per la rubrica che tiene sulla rivista satirica «Puck» negli stessi anni in cui scrive Ragazze di città, e che contribuisce a rendere moderna e dinamica la narrazione. Così, ad esempio, quando Elisabeth raggiunge per la prima volta l’appartamento della Banda, constata senza rimpianti che «d’ora in avanti entrerò anche io a far parte di quella casta di persone che della cosiddetta vita domestica conoscono solo ciò che riescono a sbirciare quando i vicini di fronte dimenticano di chiudere le tende. Se fossimo uomini saremmo “ridotti a mangiare unicamente al ristorante”». Concludendo: «piuttosto piacevole, dopo essere stata fin dalla nascita una brava ragazza di famiglia, nella casa dei miei genitori e in quella d’altri».