‘Il Dio che hai scelto per me’ di Martina Pucciarelli: intervista all’autrice.

Il Dio che hai scelto per me è il romanzo d’esordio di Martina Pucciarelli. Racconta la storia di Alessandra, cresciuta sotto la rigida disciplina dei Testimoni di Geova, alla disperata ricerca di una luce, che troverà solo a ventinove anni, quando si allontanerà dalla comunità. Un esordio potente ed emozionante, il racconto di un coraggioso addio ispirato alla storia dell’autrice stessa. Martina Pucciarelli ci racconta in questa intervista che cosa significa crescere all’interno di una comunità religiosa e perché ha scelto di scrivere questo libro. Buona lettura!


Comunità / Cosa significa crescere all’interno delle comunità dei testimoni di Geova?

Significa vivere in una realtà a tratti schizofrenica, significa muoversi nel mondo ma senza viverlo davvero. Quando sei piccolo, essere un Testimone di Geova comporta più che altro imparare l’ubbidienza e seguire delle regole di cui non si capisce bene il motivo: non festeggiare i compleanni, non partecipare alla recita di Natale, non fare il lavoretto di Pasqua ecc. Quando poi cresci, e hai compreso che prima vengono la volontà e i desideri di Geova, e poi, forse, i tuoi, diventi più bravo ad affinare la tecnica di selezione tra cosa è giusto e sbagliato: di questa persona non mi posso innamorare, questa persona non può essere mia amica, questi studi non li posso fare, questa musica non la posso ascoltare, in questo modo non mi posso vestire ecc.

Racconto / Quanto c’è di te nella protagonista del libro?

Molto, anche se ho trovato doveroso non attenermi fedelmente alla mia storia, per quanto quello che ho scritto sia ispirato a fatti realmente accaduti: la costruzione del romanzo e la narrazione probabilmente ne avrebbero risentito. Ho cercato di essere il più onesta possibile e soprattutto di dare voce alla bambina e alla ragazzina di un tempo, con i sentimenti, le paure, le convinzioni che aveva allora, senza far interferire la Martina adulta, che invece ha chiaro tutto ora. Fissare su carta i miei ricordi d’infanzia, i miei genitori e i miei luoghi, anche tutti i desideri a cui ho rinunciato, in qualche modo me li ha restituiti.

Paura / Quali sono state le tue paure più grandi da bambina?

Due. La paura della fine del mondo, prima di tutto. Armaghedon poteva arrivare da un momento all’altro, il fuoco sarebbe piovuto dal cielo e la terra avrebbe inghiottito i malvagi. Prima, però, l’Armaghedon sarebbe stato preceduto da guerre e carestie diffuse, da quel periodo che viene definito “la grande tribolazione”. Mio padre, per questo motivo, accumulava scatolette di sgombro in dispensa nel caso fosse iniziata la grande tribolazione, da bambina questo mi procurava angoscia.

Un’altra paura grandissima era quella di Satana e dei demoni. Era un pericolo meno evidente e più insidioso. I demoni potevano essere passati attraverso gli oggetti, attraverso la musica definita “degradante”, anche attraverso i cartoni animati e il film che contenevano la magia: per questo non potevo guardare Sailor Moon, Dragon Ball, i Pokemon ecc. o film come Ghostbuster. Tra i Testimoni di Geova era solito raccontarsi storie di persone indemoniate, spesso inconsapevoli di avere oggetti spiritici in casa; da bambina ascoltavo queste storie e ne ero terrorizzata. La paura di Satana, da piccola, ha coinciso con la paura del buio.

Dissociazione / Perché hai deciso di abbandonare la comunità?

Quando sono diventata mamma, per i miei figli ho avuto la forza di fare quello che solo per me stessa non ero mai riuscita a fare, ovvero scegliere la libertà, anche se sapevo che questo avrebbe comportato un prezzo molto alto da pagare. Per tutta la vita mi sono sentita combattuta tra ciò che ero e desideravo davvero e ciò che gli altri volevano io fossi e facessi: i miei genitori, Geova, la Congregazione. Ho sempre salvato loro. Ecco, non volevo che i miei figli si trovassero a dover scegliere se salvare loro o me. Loro dovevano essere liberi, e si meritavano il mio amore di madre a prescindere. Sono stati loro la miccia che ha innescato l’allontanamento da Geova. In un secondo momento, quando ho provato cosa significa la libertà, ho provato una gioia e un entusiasmo così grandi che, nonostante le perdite, mi hanno dato la carica necessaria per andare avanti e non tornare indietro.

Maternità / Perché hai deciso di raccontare una storia ispirata alla tua vita?

Mi sono chiesta tante volte cosa significhi essere madre. Sono sempre rimasta colpita da due narrazioni opposte della maternità: da una parte quella che coincide col sacrificio, la rinuncia e la dolcezza, dall’altra quella spietata e crudele. Nella mia esperienza di figlia, non la associo certo alla dolcezza, nella mia esperienza di madre, però, non ho mai voluto che l’esperienza della maternità coincidesse solo col sacrifico e la rinuncia. Desideravo fare i conti e forse fare pace con la figura ingombrante di mia madre. Ognuno fa il genitore come può, con gli strumenti che ha, non condanno mia madre, non so che tipo di madre sarò io, quello che mi preme passi come messaggio è che un figlio si aspetta di essere visto, ascoltato e amato e che non si smette mai di essere figli.