Geoffrey O’Brien lo ha definito il Dostoevskij dei supermercati: ed è in effetti una definizione piuttosto calzante per descrivere la capacità di Jim Thompson di rendere accessibile a tutti il discorso intorno all’oscurità dell’animo umano. Le storie di Thompson si leggono voracemente, ma non per questo non scavano un solco profondo nel lettore.
Dentro la cornice del romanzo tascabile, Jim Thompson riesce a ridefinire i confini di un genere, il crime, a mescolarlo con l’hard boiled e a fare incursioni continue nella propria – rocambolesca – autobiografia. Eppure, nonostante sia acclamato dalla critica e celebrato dai colleghi scrittori, Thompson rimane a lungo un outsider: la sua vastissima produzione sembra collocarsi ai margini del genere, è indefinibile, sempre presente eppure discreta. Proprio come un libro nel cestone di un supermercato.
Nella prefazione che Stephen King scrive a L’assassino che è in me, Thompson viene descritto come l’autore che è stato in grado di tracciare per la prima volta il ritratto del Grande Sociopatico Americano. E in effetti, se in una carrellata guardiamo i personaggi dei romanzi di Thompson, questo ritratto emerge con chiarezza. A cominciare da Mitch Coreley, giocatore di dadi che cerca di fregare contemporaneamente la sua amante, sua moglie e un ricco petroliere in Alla larga dal Texas, fino a Joe Wilmot e alla moglie Elizabeth, complici nell’inscenare un finto omicidio per intascare dei soldi in Nulla più di un omicidio.
Truffatori, imbroglioni, inetti: i personaggi di Thompson compiono giri larghissimi per trovare delle soluzioni ai loro problemi, per mettere delle pezze a vite piene di inciampi. Né eroi, né cattivi, ma sociopatici, appunto, incapaci di stare all’interno del consesso sociale e sempre impegnati a trovare strategie di sopravvivenza. Il racconto che Thompson fa di questi personaggi riesce a renderli però estremamente vicini al lettore: a innescare un rapporto di empatia con loro.
Prendiamo Lou Ford, un vicesceriffo che ama gli esseri umani al punto di ammazzarli senza farsi troppi scrupoli, uno che dice frasi come queste: «La nostra razza. Noi gente. Tutti noi che abbiamo cominciato la partita con una stecca storta, che volevamo così tanto e abbiamo avuto così poco, che avevamo intenzioni tanto buone e abbiamo fatto tanto male. Tutti quanti noi… Tutti noi. Tutti noi». È un personaggio che sembra incredibilmente vero. Incredibilmente simile a noi. Proprio come Raskolnikov.
Ma cosa rende così godibile l’esplorazione del vuoto portata avanti da Thompson, quello che King definisce il racconto della «sensazione di spreco nella terra dell’abbondanza»? Il fatto che ci sia una certa vena comica nel suo raccontare le cose nere: un piacere nel descrivere con il riso sulle labbra ciò che è crudo, ciò che è tragico, ciò che è osceno. E poi, quando tutto sembra leggero e superficiale, ecco che Thompson affonda il colpo: «Non possono impiccarmi, pensai. Sono già morto. Sono morto da tanto, tantissimo tempo».
Jim Thompson è nato ad Anadarko, in Oklahoma. Ha cominciato a scrivere romanzi molto giovane, vendendo il suo primo racconto a True Detective quando aveva solo 14 anni. Ha scritto ventinove romanzi e ha cosceneggiato Rapina a mano armata e Orizzonti di gloria, capolavori di Stanley Kubrick. Da molti suoi romanzi sono stati tratti dei film, sia negli Stati Uniti che in Europa. È morto in miseria a Hollywood nel 1977.