Corea, @Unsplash

Il senso della Corea per il pop

Il primo a parlarne pubblicamente è stato Barack Obama, nel 2012: era l’anno dell’innamoramento collettivo per GanGnam Style, la canzone-balletto del fumettistico Psy, il presidente americano si trovava in visita ufficiale a Seul e colse l’occasione per omaggiare la hallyu, letteralmente, la nuova onda coreana. Avete presente la Nouvelle Vague dei francesi? Ecco, qualcosa di simile, a suo modo. 


All’inizio, in effetti, furono i registi: su tutti, Park Chan-wook e Kim Ki-duk, autori di film capolavoro, iconici e impegnati, entrati prima nel radar dei cinefili e poi nel patrimonio culturale dell’Occidente. Pietà e Ferro 3, di Kim Ki- duk, premiati rispettivamente con il Leone d’Oro e il Leone d’Argento a Venezia; Old boy e Lady Vendetta di Park Chan-wook, capaci di ridefinire il significato di violenza psicologica nell’immaginario collettivo. Il loro successo, nei primi anni 2000, consentì alla Corea di emergere dall’indefinito “orientale” in cui l’Occidente l’aveva relegata; e, soprattutto, in cui il Paese si era cacciato con una censura sulla produzione culturale che proibiva sostanzialmente tutto quello che veniva considerato “controverso”. 

Il trailer di Ferro 3, in inglese.

Rimosse le leggi censorie nel 1996, raccolti i primi successi internazionali, la Corea ha scoperto però nell’ultimo decennio un gusto per il pop a tutto tondo, ben oltre i film per cultori. E la capacità – meglio detto: la volontà – di esportarlo nel resto del mondo: in una parola, la hallyu, fatta di musica, di produzioni televisive e cinematografiche, di romanzi e più genericamente, di tutto quello che contribuisce a forgiare un’identità coreana fatta di stile, tradizioni e attitudini.

I BTS, numeri da Beatles

Quale sia questa immagine lo dice, meglio di qualunque altra cosa, il K-pop (Korean pop), il pop coreano: un genere animato da band composte per lo più da adolescenti o ventenni, la cui produzione risuona delle influenze della musica dance occidentale ma anche dell’afrobeat e del rap americano, con testi in coreano a cui si mescolano parole e ritornelli in inglesi, incorniciati da coreografie e balli studiati alla perfezione.  Il tutto condito da un’attenzione maniacale per l’estetica: abiti leopardati, colori shocking, bandana e paillettes si alternano su corpi magrissimi e bianchissimi, creando qualcosa di simile a uno stile definito dal nonstile. 

Tra le band K-Pop, una su tutte ha cambiato le regole del gioco, non fosse altro perché è riuscita in un’impresa che finora era toccata solo ai Beatles: avere tre dischi al numero uno della classifica Billboard 200 nello stesso anno. Sono i BTS, acronimo di Bangtan Sonyeondan, che significa qualcosa simile a “ragazzi a prova di proiettile”, capaci cioè di resistere a qualsiasi critica. Che è anche il sottotitolo della loro autobiografia non autorizzata pubblicata nel 2018, con uno straordinario successo: d’altronde, i sette non solo hanno riempito gli stadi di mezzo mondo, monopolizzato i cinema con film evento e venduto 10 milioni di dischi solo in Corea del Sud, ma sono stati anche chiamati a parlare all’assemblea plenaria delle Nazioni Unite. 

D’altronde, il fenomeno K-Pop è sostenuto, come tutto il resto della hallyu, dallo stesso governo coreano, che ha capito l’importanza del cosiddetto “soft power” nel mondo e investe parecchio per consolidarlo, finanziando progetti di vario genere. E che ha intuito anche le ricadute di un’affermazione della cultura coreana sull’economia nazionale, tradizionalmente ingessata nelle mani di larghe corporation a conduzione familiare (cheabols) –  che l’hanno comunque fatta crescere fino a diventare la quindicesima potenza economica del globo – e che oggi affianca a queste una nuova vivacità. 

Il thriller reinventato

I cospiratori

È in questo humus che si muove l’industria dell’intrattenimento che, con un occhio al mercato e uno a mantenere una propria riconoscibilità, si impegna sfornare best seller in tutti i campi. 
In televisione hanno fatto scuola le serie diventate fenomeno di culto all’inizio dei Duemila Autumn in my heart, My Sassy girl e Winter Sonata; al cinema, più di recente, ha monopolizzato i discorsi il film Crazy Rich Asians di Jon M. Chu, e non ha aiutato la distribuzione in Italia la scelta di togliere “Asians” dal titolo, come se non fosse proprio quello uno degli elementi cruciali del film. In letteratura, la capacità di costruire thriller psicologici molto sofisticati ha trovato la sua punta di diamante ne I cospiratori di Un Su-Kim, definito dal quotidiano Guardian come colui che “Reinventa il thriller”. 

Infine, l’estetica. Che non è solo quella degli adolescenti del  K-Pop, ma un culto della bellezza come valore nazionale, abbracciato tanto dalle donne quanto dagli uomini e così rilevante da proiettare la Corea al primo posto mondiale per interventi di chirurgia estetica e da generare la K-beauty, un’industria di cosmetici capace di imporsi nel resto del globo. I suoi punti di forza? La cura del packaging, conseguenza diretta dell’attenzione al bello. Gli ingredienti naturali, spesso parte della tradizione asiatica e quindi capaci di rinforzare la stessa idea di un’identità coreana. E la capacità di innovazione, un elemento questo di tutto il Paese – il primo al mondo per penetrazione di Internet, e casa di colossi quali Samsung e LG – che nel settore cosmetico si traduce in formulazioni sempre nuove, che mescolano elementi tradizionali e l’audacia di quelli che mai avreste pensato di spalmarvi sul viso. Per scoprirli, basta navigare su internet o entrare in uno dei negozi di estetica coreana ormai presenti nelle grandi città. Oppure ancora comprare Il piccolo libro per la pelle, in uscita in autunno, un viaggio nella cura di sé che è anche la scoperta di un Paese sempre più alla ribalta nel mondo.