‘L’albero che volò sulla luna’: intervista a Thao Thai.

L’albero che volò sulla luna di Thao Thai è un esordio sorprendente e commovente: una storia di madri e figlie, delle cose che ereditiamo e delle vite che scegliamo di creare con quell’eredità. L’autrice ci racconta qui, in una intervista esclusiva pubblicata online da Harper Collins Publisher per conto di Mariner, il suo romanzo d’esordio, che vi aspetta in libreria.

Cosa ti ha ispirata a scrivere L’albero che volò sulla luna?

Il seme di L’albero che volò sulla luna è il baule che alla fine del romanzo avrà un ruolo centrale. Mia madre mi raccontava sempre storie sul suo breve, ma passionale, matrimonio con mio padre. Mi parlava anche di una versione vietnamita della favola di Barbablù, in cui la moglie di un nobiluomo riceve una chiave e il permesso di esplorare qualunque baule desideri, tranne un baule d’oro, che contiene i segreti più oscuri. Ovviamente, lei apre il baule proibito, porta alla luce i suoi oscuri segreti e subisce la sua ira. Per un lungo periodo, ho confuso queste due storie, pensando che mio padre fosse Barbablù e che mia madre fosse la sfortunata moglie con la chiave. Ero spaventata, ovviamente, ma anche affascinata. Ho trascorso anni immaginando mia madre aggirarsi per quella casa enorme, provando tutte le serrature finché non avesse trovato quella che cercava. Per me, l’amore può mostrarsi come un labirinto di inganni. Quando ho iniziato a scrivere L’albero che volò sulla luna, mi sono ispirata a un racconto popolare, insieme a molti altri, per costruire un mondo che speravo catturasse i miei lettori, così come aveva fatto con me.

L’albero che volò sulla luna si svolge in gran parte in una vecchia villa fatiscente della Florida, piena di atmosfere gotiche. Perché hai scelto proprio quell’ambientazione?

Sono cresciuta sulle coste della Florida, poi ho trascorso un periodo verso il Panhandle, vicino al confine con la Georgia. Durante il mio soggiorno nel Sud, mi sono imbattuta in una miriade di case bellissime, alcune ristrutturate e ben tenute, altre che cadevano in rovina, soffocate da enormi alberi che sembravano inghiottirle per intero. Ogni volta che vedevo una casa sul punto di crollare, mi chiedevo: ‘Come ha fatto a ridursi così?’. L’abbandono rappresenta una storia a sé stante e ovviamente crea la perfetta ambientazione per un romanzo che danza lentamente tra le braccia del realismo magico, così come fa L’albero che volò sulla luna. Ho sempre amato il modo in cui, nei romanzi gotici, una casa può trasformarsi in un vero e proprio personaggio. In particolare, nel genere gotico meridionale, mi ha colpito il modo in cui il racconto può esplorare la natura dell’alienazione. Questa è una parte preponderante di ciò che viene raccontato a proposito della diaspora vietnamita: l’alienazione dal proprio Paese, dalla propria lingua e, in alcuni casi, dalla propria famiglia. Ho voluto paragonare l’esperienza della migrazione vietnamita con il paesaggio trasgressivo e in deterioramento di una villa secolare, per poter esplorare questioni relative a luoghi densi di profonda appartenenza – o eredità – culturale.

Come i temi dell’eredità e dei segreti famigliari sono intrecciati in L’albero che volò sulla luna?

I segreti sono un’eredità nel romanzo, così come lo è la stessa Banyan House. Il termine ‘segreto di famiglia’ può spesso sembrare carico di connotazioni negative (a dire il vero, spesso, disastrose), perché agli esseri umani piace essere a conoscenza delle cose. Siamo una specie curiosa, investigativa. Non sempre ci sentiamo a nostro agio – me compresa – con il mistero o con la distanza da una storia. In L’albero che volò sulla luna, i segreti vengono alla luce, goccia a goccia, ma alcuni restano rinchiusi. Una delle domande che ho dovuto pormi scrivendo il romanzo è se i segreti servono meglio il mondo quando rimangono nascosti. La trasparenza radicale è l’unica risposta? O possiamo permettere l’incertezza e la distanza tra le persone, senza per questo amarle di meno? Eppure, i segreti che vengono rivelati nel romanzo hanno il potere di scuotere la storia, e persino un’intera famiglia. Possono sembrare un dono o un fardello, o forse una mescolanza tra i due. Quello che intendo è che i segreti possono essere un’eredità, ma non sono necessariamente ciò che desidereremmo per noi stessi.

Come hai sviluppato il personaggio di Minh e i suoi primi anni in Vietnam? Perché hai scelto di continuare a scrivere dalla sua prospettiva, anche dopo la sua morte?

Nelle prime bozze del romanzo, Minh non voleva assolutamente morire, come avrebbe dovuto. Voglio dire che, anche se non era più presente nel corpo, la sua voce continuava farsi largo nella narrazione, insistendo sulla sua presenza. Nella mia mente, lei commentava il cibo servito al proprio funerale o faceva osservazioni sui vestiti delle persone. Ho avuto la sensazione che desiderasse continuare a comandare tutti anche da morta, come faceva da viva. Mi è sembrato fedele a quello che so di molte donne vietnamiti delle vecchie generazioni. La testardaggine è esattamente il motivo per cui Minh è una sopravvissuta e anche ciò che di lei mi ha più conquistata. Mi sembrava avesse senso che la sua voce continuasse a avere un’eco nella storia di Tran. Volevo sapere se fosse diventata come me la immaginavo e, grazie alla mia ricerca e i miei (limitati) viaggi in Vietnam, ho immaginato un mondo in cui il suo idealismo giovanile si sarebbe scontrato con una realtà brutale. Per me, Minh, è tutto, insieme, allo stesso tempo: progressista, ma anche fermamente tradizionale; feroce, ma tenera; ingannevole, ma onesta nelle sue emozioni. Sono cresciuta con le storie della mia famiglia, che ha vissuto le incessanti guerre dei Ventesimo secolo. In un momento ne ridevano, subito dopo iniziavano a piangere. Quindi ho immaginato che anche la vita di Minh fosse contraddistinta da quella giustapposizione di gioia e dolore. La vita non è mai una cosa sola; tanto meno lo sono le persone. Minh, più di tutti i personaggi, non è inquadrabile in modo netto, nemmeno dopo la sua morte.

Hai voluto concentrarti sulle complessità del rapporto madre e figlia, o è una cosa che è emersa spontaneamente durante la scrittura? Perché sei stata attratta da queste dinamiche?

Quando sono diventata madre, ho scoperto che la relazione con mia figlia ha iniziato a amplificare anche la relazione con mia madre, in modo inaspettato. Facevo il genitore in un modo diverso dalle generazioni che mi hanno preceduta, ma a differenza di Minh, mia madre mi ha lasciato lo spazio di esplorare cosa significasse abitare la mia nuova identità. Ho un ricordo estremamente viscerale di quando ho visto mia madre sedersi sul nostro divano, una settimana dopo il mio parto. Le sue mani erano tese verso mia figlia e la sua espressione era impaziente, quasi avara. Erano anni che diceva di volere una nipotina e finalmente quel momento era arrivato. Ma io ho esitato per un istante, prima di passarle la bambina. Credo nel potere della comunità, del villaggio, eppure ho dovuto combattere con questo istinto – quasi ancestrale – di tenere mia figlia unicamente stretta a me. Alla fine, ovviamente, l’ho passata a mia madre ed è stato un momento meraviglioso. Ma è stato complicato. A volte, penso che le nostre definizioni di maternità siano ristrette e appiattite in una versione accettabile. Come se non ci fosse spazio per le sfumature. Penso che spesso l’amore assomigli all’oceano nei suoi stati d’animo, che cambiano di attimo in attimo: a volte, caldo e placido, altre volte temibile e selvaggio. Credo di aver sperato che altre madri e figlie potessero sentirsi viste, da queste rappresentazioni complesse dell’amore, ma non per questo meno significative.

Cosa speravi di esplorare raffigurando relazioni e matrimoni indeboliti e falliti?

Ho sempre pensato che le relazioni siano incredibilmente specifiche e universali allo stesso tempo. Siamo alle prese con molte delle stesse gioie e degli stessi pericoli del tradimento, ma il modo in cui queste emozioni risuonano nelle nostre vite cambia notevolmente, anche dopo molto tempo dopo la relazione. Anche gli effetti di queste relazioni si ripercuotono sulle nostre vite, come vediamo in L’albero che volò sulla luna, specialmente su quella di Minh e di Binh. Quando si tratta di matrimoni con finali difficili (anche portati al limite estremo, come per Huong e Vinh), spesso ce li ricordiamo per il finale e non per la loro genesi, che è solitamente radicata nella speranza e nell’innata necessità di connettersi con un’altra persona. Sono sempre interessata a tracciare quel percorso: dalla fine di una storia d’amore, a ritroso fino alla sua origine. Quel viaggio dice molto del modo in cui ci amiamo, ma anche del modo in cui ci feriamo a vicenda. Un tempo, guardavo con diffidenza all’espressione ‘separazione amichevole’, ma ora vedo la necessità di un termine più ampio della parola ‘fallimento’, per descrivere la fine di un matrimonio. La verità è che falliamo ogni giorno nelle nostre relazioni, a vari livelli. Ma se siamo fortunati, quei fallimenti possono avvicinarci a un modo più onesto di amarci.

Scrivi regolarmente della tua famiglia a proposito di relazioni, cibo e altri argomenti, a seconda del mezzo che usi. In che modo la tua esperienza nella scrittura di saggistica ha influenzato la tua narrativa?

Mi sono accorta che sto ancora indagando molti temi ricorrenti in qualunque forma io scriva! Parlo spesso del potere della memoria, così come dei modi in cui certi ricordi sono tramandati per generazioni. Voglio onorare la maniera in cui gli oggetti e i rituali creano un perfetto e compiuto senso di casa, che sia grazie a una ciotola di chào1 o un santuario riempito amorevolmente di frutta. Quando scrivo i miei saggi faccio delle domande alla pagina. L’albero che volò sulla luna è un’evoluzione di molte di quelle domande sulla diaspora vietnamita e sui suoi effetti sulle famiglie. Inoltre, una cosa che ho imparato scrivendo saggi è la differenza tra verità letterale e verità emotiva. C’è quello che si è visto e quello che si è provato; queste verità possono sembrare talvolta molto distanti tra loro, ma è proprio questa incongruenza a offrirci una vera possibilità di comprensione. E la memoria può essere una creatura molto scivolosa. Preferiamo pensare alle nostre vite come a narrazioni statiche, quando invece sono un misto di immaginazione ed emozione, intrecciate con i fatti. Non sono mai certa di nulla quando scrivo un saggio. Cerco di mantenere quel senso di curiosità (e umiltà) e di applicarlo anche alla narrativa.

Cosa speri che i lettori possano trarre da L’albero che volò sulla luna?

Dico sempre che L’albero che volò sulla luna è un’ode ai sopravvissuti. Spero che i sopravvissuti ai traumi e alle sofferenze del cuore si sentano visti da questo libro, se non in un’eco di circostanze esatte, almeno nell’idea di imparare a liberarsi da tutto ciò che ci sta stretto. Non importa quali siano le proprie eredità o background culturali, mi piacerebbe che i lettori si considerassero il testamento vivente dei percorsi tortuosi dei propri antenati. Le storie sono sempre un dono, anche se non sono belle o ordinate. Infatti, le storie che sembrano più intricate sono spesso quelle che ci portano in mezzo al fuoco, per poi condurci in un luogo di meritata gratitudine.


  1. Una densa zuppa di riso della tradizione vietnamita. ↩︎