Tutte le madri si somigliano, ogni madre è diversa a modo suo

Abi rimane incinta senza rendersene conto e tutto a un tratto diventa madre di Jude. Come si fa a essere una buona madre, senza aiuti né modelli di riferimento? Ma soprattutto, cosa significa, davvero, essere una buona madre?

In Essential Labor: Mothering as Social Change, la scrittrice Angela Garbes scrive: «crescere i figli non è un passatempo privato né un dovere individuale». Piuttosto, «una responsabilità sociale, che richiede un robusto supporto della comunità». È un’affermazione tutto sommato semplice, in cui viene quasi naturale riconoscersi, e che tuttavia prefigura una situazione molto lontana dalla realtà.  La realtà, nella maggioranza dei casi, assomiglia molto più da vicino alla vita di Abi, una delle protagoniste di Come tutte le madri, il nuovo romanzo di Meg Mason, già autrice di L’opposto di me stessa, finalista al Women’s prize for fiction nel 2022.

Abi è molto giovane quando si ritrova a essere madre del piccolo Jude. Inseguendo quell’idea di famiglia che sognava da bambina, si trasferisce allora a Sidney per raggiungere Stu, lo studente australiano che ha trascorso un semestre a Londra e del quale è rimasta incinta.

Sembrerebbero, quelle di Abi, circostante bizzare: prendere un volo di sola andata per una città sconosciuta dall’altra parte del mondo, con la promessa di dare a un figlio tutto il meglio che la sua vita può offrire e nella speranza di lasciarsi alle spalle un contesto poco attraente e una solitudine con cui è difficile fare i conti. Eppure, al di là delle apparenze, il senso di smarrimento che coglie Abi prima e durante il suo essere madre è qualcosa che tutte le madri, almeno una volta, hanno sperimentato e con cui hanno imparato a convivere. Perché, come le rivela Phil, l’anziana ed elegante signora che Abi incontra in una delle sue prime passeggiate australiane – e che molto presto diventa l’amica-confidente-madre che Abi non ha mai avuto –, «i bambini non arrivano mai per caso. Nascono quando pare a loro, e noi madri facciamo funzionare le circostanze in cui ci hanno trovato».

Jude, ad esempio, nasce in anticipo, due giorni prima di Natale, quando Abi e Stu si trovano a undici ore di fuso di distanza. In ospedale, Abi non ha letteralmente nessuno con cui condividere il momento, perché Rae, sua madre, è da molti anni incapace di adempiere al suo ruolo, mentre il padre e la sorella sono morti in un incidente domestico molti anni prima. Torna a casa in minicab e la sera stessa, seduta su un letto singolo, impara insieme a Jude i principi dell’allattamento. Poi parte alla volta di Sidney, con il proposito di lasciarsi alle spalle tutte le cattive abitudini e «cambiare pelle».  

Nonostante i buoni propositi, e per quanto, fin da subito, inizi a provare per il neonato un sentimento di amore che non ha mai provato per nessuno, questa nuova vita a Sidney si rivela per Abi estremamente diversa dalle aspettative: Stu non ha molta contezza di quello che significhi creare una famiglia e sembra vivere alla giornata; Eliane, la madre di Stu, è tutto fuorché un punto di riferimento; soprattutto, quella solitudine che Abi sperava di aver lasciato a Londra torna a bussare con insistenza alla porta dell’appartamento spoglio che i genitori di Stu hanno messo a disposizione. Per fortuna c’è Phil: Abi spera di incontrarla ogni volta che esce a passeggio, perché parlando con lei, per la prima volta, sente allentarsi il nodo che ha nello stomaco da molto tempo. 

Phil, da poco vedova, madre di quattro figli che per una ragione o per un’altra si trovano tutti molto lontano, prende in prestito le parole di Edith Warton per descrivere l’incontro fortuito con Abi: «Era una delle persone occasionali che formano l’imbottitura della vita. Era impossibile credere che fosse mai stata lei il centro delle attività». Con modalità prevedibilmente diverse, Abi e Phil diventano l’una il supporto dell’altra, andando a formare, in piccolo, quella comunità di cui parla Angela Garbes nel suo saggio.

Attraverso il racconto delle esperienze di Abi e Phil, del reciproco scambio che il loro legame alimenta, Mason illumina molte altre vite e molti altri modi di essere o non essere madri: c’è Polly, primogenita di Phil, che lavora tutto il giorno «mentre i bambini, che ha pagato un sacco di soldi per concepire, stanno con la ragazza polacca che ha incastrato su in mansarda»; c’è Eliane, la madre di Stu, che riempie i divani di casa con cuscini su cui sono ricamate frasi di repertorio come «Una madre ti tiene per mano un giorno e nel cuore per sempre» oppure «Le madri perfette hanno fornelli sporchi e bambini felici». C’è Rae, la madre di Abi rimasta a Londra, che passa sedici ore al giorno sulla poltrona del soggiorno con addosso piumino e berretto per difendersi dal freddo della vita, e che quando riceve da Abi una foto di suo nipote risponde con messaggi tipo «Sai dove finitil tagliaunghie??» 
Mason sembra dirci: anche le madri nascono all’improvviso e imparano a esserlo nelle circostanze più diverse, facendo del loro meglio anche quando il meglio, a un figlio o a una figlia, può sembrare molto poco. Con altre parole, è di questo che parlava Ema Stockolma in Per il mio bene, romanzo autobiografico sul suo passato, quando era ancora Morwenn Moguerou, una bambina che non si sentiva mai al sicuro da nessuna parte, e che temeva sua madre – le sue accuse, le sue aggressioni, la capacità di insinuare in lei un bruciante senso di inadeguatezza – più di ogni altra cosa. Anche Il fratello del famoso Jack di Barbara Trapido, acclamato romanzo del 1982 pubblicato per la prima volta in Italia nel 2023, attraverso il personaggio della giovane protagonista – che proviene da una famiglia medio-borghese ed è catapultata nel mondo bohémien della famiglia del suo professore di filosofia –  è un invito a riflettere sul tema della maternità prestando particolare attenzione alle dinamiche di potere.