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Vite che non sono le nostre

Perché leggiamo le biografie musicali?

Perché le vite dei musicisti ci appassionano così tanto? Non si tratta solo di indagare la loro carriera artistica: come hanno iniziato, cosa hanno provato la prima volta che hanno tenuto in mano una chitarra o si sono seduti dietro una batteria o di fronte a un pianoforte. Sarebbe  forse più facile rispondere a questa domanda se il punto della nostra curiosità fosse puramente professionale: voler capire come una persona con la passione per la musica si trasforma in una star acclamata da una platea immensa, su un enorme prato o dentro uno stadio. Ma se leggiamo le biografie dei musicisti allora dobbiamo ammettere che non è solo questo che vogliamo sapere: non solo il rapporto con i propri insegnanti di musica o il perché un tale album ha preso quel nome, non solo le emozioni e le paure legate al salire sul palco. C’è qualcosa in più.
Persino Get Back, il mastodontico documentario diretto da Peter Jackson che racconta i 21 giorni passati dai Beatles negli studi di registrazione per preparare Let it Be, non parla solo di musica. Il che è paradossale, perché è quello che ci aspetteremmo da una quantità così grande di ore di girato dentro una sala di registrazione. Eppure, oltre ai momenti quasi commoventi in cui vediamo letteralmente nascere di fronte ai nostri occhi alcune delle canzoni che hanno cambiato la storia della musica, in queste otto ore si insinuano affari di famiglia, amicizie, liti, momenti di tensione; arrivano persone da fuori che entrano nella dinamica della band,  alcuni membri si allontanano, vengono richiamati dalla loro vita altra, quella che non è strettamente vivibile all’interno di uno studio di registrazione.

Forse sta in questo impasto tra vita e arte la nostra curiosità di ascoltatori prima e di lettori poi; forse deriva dal fatto che sappiamo che chi sale su un palco non è solo un musicista con uno strumento tra le mani, ma è una persona, un fratello, un marito, una sorella, una figlia, una moglie, un solitario, una festaiola, una persona ferita o una persona gioiosa. 

Nel momento in cui inizia a suonare, tutto questo non si annulla: diventa inestricabilmente parte della sua musica.

Che la storia di un gruppo, di un musicista, sia prima di tutto una storia d’amore è chiaro già dal titolo della biografia di Chris Frantz, batterista dei Talking Heads. Remain in Love segue la nascita dei Talking Heads e in parallelo la nascita e lo svolgersi dell’amore tra Chris Frantz e Tina Weymouth, bassista dello stesso gruppo.

Narrata in prima persona, è un’ autobiografia che lascia spazio anche alle tristezze, ai rancori: primo tra tutti quello che segna lo scioglimento della band, deciso unilateralmente e senza preavviso da David Byrne. Remain in Love suona allora come un manifesto per la vita di Chris Frantz: una promessa che fa a Tina ma anche alla musica, alla sua passione, alla storia dei Talking Heads che lungo il racconto tocca la crescita di un gruppo di giovani con un sogno: cambiare per sempre la storia della musica. E di crescita e del desiderio di essere amato parla anche Acid for the children, l’ autobiografia scritta da Flea, il bassista dei Red Hot Chili Peppers. Nella sua storia si mescolano turbolenze familiari, una spiccata passione per l’avventura e per l’eccesso, la voglia di superare i limiti, la ricerca costante di amore. La voce con cui Flea racconta i fatti è quasi sdoppiata: da una parte c’è quella che risponde a un desiderio di ordine – il desiderio che forse anima chiunque scriva la propria vita: metterla in ordine, vederla con chiarezza – , che però spesso viene interrotta da digressioni di un’altra voce, quella desiderante, pulsante, anche sofferente, che lascia parlare la parte più emotiva e quindi caotica del musicista. 

Molte voci le troviamo anche in Charlie’s good tonight, la biografia di Charlie Watts, batterista dei Rolling Stones. In questo caso non è il musicista a raccontare la propria storia in prima persona: il libro è costruito attraverso il racconto di chi è stato vicino a Watts: colleghi, amici, familiari. Quello che viene fuori è il ritratto di una persona con un’indole pacata e amabile, molto lontana dall’idea che abbiamo delle rockstar. Persino il titolo del libro, scritto da Paul Sexton, è la citazione di una frase che Mick Jagger pronuncia sul palco del Madison Square Garden di New York, nel novembre del 1969, facendo notare al pubblico degli Stones che quella sera Charlie è davvero in grande forma.

Tre testi molto diversi tra loro: eppure si tratta di tre libri che rispondono allo stesso modo alla nostra curiosità. Chi sono state, nella loro vita, quelle persone che suonano le canzoni che ancora ci portiamo dietro nelle nostre cuffie mentre viaggiamo, andiamo al lavoro, passeggiamo per le città in cui viviamo?
Non sarà possibile, per noi, conoscerle davvero; eppure leggere di loro ce le rende molto meno sconosciute, molto meno distanti. E forse è qui la risposta: leggiamo le vite dei musicisti perché vogliamo accorciare le distanze.