Imparare a vivere

Vampiri, serie tv, storie tramandate di madre in figlia

Lydia ha 23 anni. È un’artista e vive a Londra. La sua vita è a un punto di svolta: sta per cominciare a lavorare in una galleria d’arte e si sta trasferendo in una casa tutta sua, per la prima volta lontana dalla madre. Fin qui tutto normale: stiamo leggendo una storia di formazione, il più classico dei coming of age. Quello che distingue Cronache della mia fame di Claire Kohda dagli altri romanzi che raccontano il passaggio all’età adulta è un piccolo dettaglio: Lydia non è come tutte le altre persone, Lydia può nutrirsi solo di sangue. Lydia è una vampira. Ma non una vampira come il classico Dracula di Bram Stoker o le riletture comedy di What we do in the shadows

«Non sono sicura se quella che sento è più fame o rabbia»: quella di Lydia è la storia di una ragazza che è una vampira ma anche una ragazza come tante, un’outsider che cerca il suo posto nel mondo, una giovane donna in lotta per l’affermazione di sé, l’accettazione del suo desiderio, del suo corpo e del suo rapporto conflittuale con il cibo. Abbiamo intervistato la persona che Lydia l’ha creata: Claire Kohda, scrittrice e musicista inglese (come violinista, ha suonato, tra gli altri, con The National, Sigur Rós, The London Contemporary Orchestra e The English Chamber Orchestra e in colonne sonore di diversi film).

Cominciamo proprio dall’inizio. In epigrafe hai scelto una frase di Lafcadio Hearn: «Tutta la vita, per sostenersi, deve divorare la vita». La sua eco oscura risuona pagina dopo pagina, fino alla scena finale. Hearn è stato un ponte tra Occidente e Oriente, ha “divorato” la cultura giapponese e l’ha digerita per gli stomaci occidentali. Hai scelto questa frase per la sua bellezza e per la sua consonanza con i temi del libro o anche per il ruolo culturale del suo autore?

Lafcadio Hearn è famoso soprattutto per aver raccontato storie giapponesi di fantasmi che gli furono narrate da persone giapponesi; queste storie furono poi pubblicate in Occidente, introducendo per la prima volta molti lettori occidentali alla cultura giapponese. Ma io l’ho incrociato in un contesto diverso. Non sapevo come si scrivesse il suo nome fino a poco tempo fa, perché mi ero abituata a sentire la pronuncia giapponese, quella che sentivo da mia madre e dalla mia famiglia in Giappone. Per me, il suo nome è stato, per molto tempo, “Rafukadio Ha-nu”. Ho conosciuto le storie di questo misterioso autore probabilmente prima di conoscere quelle di Shakespeare. Quando ero molto piccola, ho scoperto che mia madre era cresciuta con le storie di Hearn: sua madre gliele aveva lette come storie della buonanotte. Mia madre, poi, le ha raccontate a me. 

Ciò di cui non ero consapevole fino a poco tempo fa era che, in quei momenti con mia madre, prima di andare a dormire, stava avvenendo un processo di riscatto. Avevo sempre dato per scontato che Rafukadio Ha-nu fosse giapponese. E, stranamente, anche mia madre, da bambina, aveva pensato la stessa cosa (mi ha raccontato di recente la sua sorpresa dopo aver visto per la prima volta una foto di Hearn ed essersi resa conto che era un uomo bianco).

Le reinterpretazioni delle storie giapponesi di fantasmi e dei racconti buddhisti di Lafcadio Hearn sono effettivamente molto belle e narrate con sensibilità. È estremamente onesto riguardo al fatto che non si tratta di invenzioni sue, ma di riscritture, spesso spiegando il contesto in cui ha appreso ciascuna storia, chi gliel’ha raccontata, e così via. Leggendo le sue opere, non ho l’impressione che abbia “divorato” la cultura giapponese. Era buddhista, e gran parte delle sua scrittura lo spinge a interrogarsi sulle sue convinzioni e sul suo modo di vivere.

I suoi scritti sul Buddismo sono incredibilmente belli, compreso quello da cui è tratta l’epigrafe. Hearn è aperto nella sua scrittura, sembra sull’orlo di una confessione. E ho realizzato quanto sia perfettamente adatto a Lydia, la protagonista di Cronache della mia fame, che è altrettanto aperta e sincera, e che sta cercando di capire come vivere la sua vita. In un certo senso, la sensibilità di Lydia è molto buddhista, nonostante sia una vampira, una creatura predestinata a uccidere.

Lydia avrebbe imparato qualcosa su se stessa leggendo i libri di Hearn. Credo davvero che la sua raccolta In Ghostly Japan si abbinerebbe bene alla storia di Lydia! Tra l’altro, se potessero incontrarsi avrebbero molto di cui parlare.

Così come Hearn tra Ottocento e Novecento ha divorato l’Oriente, adesso tu e Lydia potete divorare lui e riappropriarvi di un pezzo della vostra identità: è un’interpretazione troppo spericolata?

Non penso che questa interpretazione sia troppo spericolata. Torniamo alle storie della buonanotte con mia madre: quando mi raccontava le storie che aveva conosciuto grazie ai libri di Hearn, lei stava riappropriandosi di storie che non “appartenevano” a Hearn, ma appartenevano alla sua tradizione e alla sua cultura. Quei racconti erano stati narrati a Hearn, poi narrati da lui alle persone occidentali, e poi – molti anni dopo – narrate di nuovo da mia madre, giapponese, a me, di discendenza mista. È così che mi sono arrivate quelle storie. Io le ho poi consegnate a un’altra donna di discendenza mista, Lydia.

È facile vedere Lafcadio Hearn come un cattivo – ha “divorato” la cultura giapponese e l’ha consegnata agli occidentali, pronta da consumare. Ma la sua storia personale è molto più complicata. Lafcadio Hearn è nato in Grecia e, in quegli anni, non veniva considerato un ragazzo bianco occidentale. Non era nemmeno considerato europeo. All’epoca, la Grecia era considerata parte dell'”Oriente”. Credo che Hearn, abbandonato poi dai suoi genitori, non abbia mai veramente sentito di avere radici da qualche parte. Alcune persone lo chiamano «il ponte tra Est e Ovest», ma immagino che si sentisse semplicemente alla deriva, da qualche parte nel mezzo. Ora, naturalmente, lo riconosciamo come un uomo bianco, e riconosciamo il suo lavoro come problematico per certi aspetti, come se fosse un collezionista: in un certo senso è forse come Gideon di Cronache della mia fame, un personaggio che trae profitto dalla cultura di qualcun altro attraverso la mercificazione di quella cultura. Ma penso che parte delle incertezze e del senso di non appartenenza provati da Hearn si riflettano anche nelle sue opere. Questi sentimenti sono condivisi da Lydia, che è di razza mista, sì, ma è anche costantemente incapace di integrarsi a causa della sua dieta; si sente sempre straniera, diversa e problematica, pericolosa, moralmente sbagliata. Hearn sembrava essere un accompagnamento perfetto per le sue sofferenze. E poi, sì: la sua frase come epigrafe fa continuare il ciclo di trasmissione di quelle storie.

Credi che l’esotizzazione del Giappone e dell’Oriente – a cui hanno contribuito, anche involontariamente, persone come Hearn – abbia creato stereotipi dannosi che perdurano ancora oggi? Sono gli stessi stereotipi e pregiudizi di cui è vittima Lydia, il cui padre è giapponese e la madre per metà malese? 

La scintilla di questo libro si è accesa, in parte, per gli stereotipi sulle persone asiatiche. L’ho scritto nel settembre 2020, dopo quasi un anno in cui il razzismo contro gli asiatici in tutto il mondo era aumentato a causa della pandemia di Covid-19. Ho visto la mia famiglia e i miei amici subire attacchi razzisti con una frequenza maggiore rispetto al passato, e gli stereotipi si diffondevano e diventavano più forti, più meschini. Il razzismo contro gli asiatici spesso riguarda il cibo, è la solita storia sul mangiare cani, balene, pipistrelli: lo stereotipo dell’asiatico animalesco, crudele e barbaro, che non si preoccupa delle altre creature. Poi ci sono i pregiudizi rimasti dalla guerra, ovvero i giapponesi considerati meno umani, mostruosi, spietati, malvagi. E poi ci sono tutti modi in cui le donne asiatiche vengono feticizzate ed esotizzate, viste non come esseri umani, ma come oggetti sessuali sottomessi. E infine c’è il fatto che molte culture e filosofie asiatiche sono state mercificate: è una cosa strana quando un’intera cultura viene compressa e trasformata dal capitalismo in un prodotto da consumare. Tutti questi stereotipi e pregiudizi contribuiscono alla disumanizzazione e alla violenza.

E Lydia viene fuori da tutto questo. Il cibo di Lydia è straniero per tutti noi: lei si nutre solo di sangue, e potremmo facilmente interpretarlo come un segno della sua pericolosa natura. Ma Lydia è più attenta alla provenienza del suo cibo rispetto alla maggior parte degli esseri umani. Quando beve il sangue, vive la vita dell’animale da cui è stato prelevato: sperimenta il suo dolore, la sua sofferenza, l’amore, la libertà o la mancanza di essa che l’animale ha provato. Volevo creare un vampiro che si preoccupasse davvero, in modo profondo. Questo aspetto proviene dalla mia esperienza di vegana a cui è stato spesso chiesto perché in Giappone si mangi la carne di balena. Lydia è anche, tecnicamente, un mostro. È uno dei nostri personaggi dell’orrore più tradizionali: una vampira. Ma è anche la persona più umana e riflessiva che io conosca. Volevo creare una tensione tra ciò che pensiamo quando sentiamo la parola “vampiro” e la realtà di Lydia. E poi Lydia è una donna asiatica: è giovane, è vulnerabile, desiderata, predata, esotizzata – come molte donne nella vita reale. Ma è, allo stesso tempo, molto potente: le ho dato denti per mordere e forza – è un riflesso della forza che tutti gli esseri umani possiedono.

Torniamo alla vita che divora la vita: credi che in ogni relazione ci sia sempre la volontà di prendere qualcosa dall’altra persona, di divorare e di appropriarsi di un pezzo di lei?

Ogni aspetto della vita implica prendere qualcosa dagli altri, ma credo che non sia una cosa negativa. All’inizio del romanzo Lydia la vede come una cosa negativa. Penso che abbia paura di prendere da chiunque, perché questo significherebbe che quello che le ha detto sua madre è vero: è un mostro, è intrinsecamente cattiva. Ma, gradualmente, nel corso del libro, Lydia impara a vivere. In realtà, è proprio questo il tema di Cronache della mia fame: è la storia di una persona che impara a vivere. Imparare a vivere comporta prendere qualcosa dagli altri. E va bene, purché diamo anche qualcosa in cambio. Nelle relazioni e nell’amicizia dovrebbe esserci uno scambio: prendiamo il tempo di un’altra persona, forse, o il suo aiuto, il suo sostegno e il suo amore, ma restituiamo anche tempo, aiuto, sostegno, amore. C’è un equilibrio in tutto. Non possiamo passare tutta la vita solo dando agli altri pezzi di noi, e non dovremmo passare tutta la vita solo prendendo pezzi degli altri. La madre di Lydia crede che i vampiri esistano perché un colonizzatore, secoli fa, ha preso così tanto dalle altre persone che è stato maledetto da Dio: può solo prendere ciò che non gli appartiene, per sempre. Ma Lydia, nel corso della storia, dimostra che non è vero: lei, anche se è una vampira, dà e dà agli altri. Le sue relazioni sono complicate, ma, alla fine, è generosa come figlia, amica, amante e artista.

Quali canzoni, libri o film ti hanno ispirata mentre scrivevi Cronache della mia fame?

Sono una critica letteraria e mi sono specializzata nei libri provenienti dall’Asia orientale o che parlano di essa. Ho letto molti libri in traduzione, soprattutto dalla Corea e dal Giappone. Credo che spesso, in Occidente, cerchiamo di far rientrare i libri in categorie predefinite. Se in un libro ci sono un vampiro o un fantasma, allora questo libro viene subito considerato un horror; se ci sono alieni, è considerato fantascienza; se ci sono draghi o altre creature mitiche, è considerato fantasy. Cerchiamo sempre di categorizzare le storie e farle rientrare in generi prestabiliti. Tuttavia, nei libri che stavo leggendo talvolta c’erano fantasmi (come in Nel paese delle donne selvagge di Matsuda Aoko o Tokyo. Stazione Ueno di Yu Miri), altre volte vampiri (come in Vita in vendita di Mishima Yukio, ad esempio), ma non venivano mai etichettati come “horror” o “fantasy”. La magia permea gran parte della letteratura dell’Asia orientale, e quei libri vengono semplicemente pubblicati come… libri. Romanzi letterari, forse. Semplicemente storie. Questo mi ha davvero ispirato. Perché non ero interessata a scrivere un “romanzo dell’orrore”. Volevo semplicemente scrivere della vita. È solo capitato che la mia protagonista fosse una vampira.

Penso che la letteratura asiatica affronti molti temi che in Inghilterra potrebbero essere percepiti come “rischiosi”. Alcuni romanzi molto riusciti e celebrati raccontano storie sorprendenti e non categorizzabili: prendiamo, per esempio, La vegetariana di Han Kang e I terrestri di Murata Sayaka. Credo di essere stata in grado di spingere la storia di Lydia verso gli estremi a cui arriva perché trascorro così tanto tempo a leggere romanzi come questi, romanzi che non si tirano indietro. Mi piace anche la scrittura di Fleur Jaeggy, e ho sempre amato e tratto ispirazione da Tove Jansson.

Passando al cinema: sono cresciuta guardando grandi film con mia madre! Le mie giornate preferite erano quelle in cui saltavo la scuola per guardare film e mangiare snack. Mia madre mi ha dato un’educazione cinematografica che mi ha aiutato a imparare come raccontare storie. Ho amato Léon di Luc Besson, Fargo dei fratelli Coen, Principessa Mononoke di Hayao Miyazaki e Daunbailò di Jim Jarmusch.

Conoscendo Lydia, ci è venuta in mente una canzone degli Smashing Pumpkins, Butterfly with butterfly wings. Ci sembra di intravedere la stessa rabbia, la stessa sensazione di essere in una gabbia ai margini della società, con l’impressione che sia il resto del mondo a essere un vampiro che cerca di mangiarti: sono sentimenti che uniscono tutte le persone adolescenti/giovani in qualsiasi epoca, quindi anche una vampira che è fuori dal tempo?

Che frase perfetta «con l’impressione che il resto del mondo sia un vampiro che cerca di consumarti»: incarna il libro e i sentimenti di Lydia. Lei è il vampiro in questo romanzo, ma sono gli esseri umani i personaggi più pericolosi e i più vampirici. Penso che ci sia qualcosa di senza tempo in alcune delle cose che Lydia prova: si sente un’estranea, diversa, sola, e per di più come vampiro è condannata a rimanere giovane per sempre. Mentre scrivevo questo libro, un’amica che ha più di sessant’anni mi ha detto che si sente ancora una bambina. Il vampiro è una metafora per molte cose che tutti noi proviamo come esseri umani: la solitudine, il sentirci diversi, il sentirci giovani dentro, il sentirci ancora bambini in alcune situazioni. Questi sentimenti ci uniscono indipendentemente dall’età, dal luogo o dall’epoca in cui viviamo.

Qual è il tuo personaggio preferito di Buffy? E quale quello di Lydia, secondo te?

È difficile scegliere tra Spike e Drusilla! Amo Spike: è davvero un’ottima rappresentazione di un vampiro. Non è dolce, misterioso, seducente e idealizzato come Angel. Spike è impacciato, distratto, un po’ sfortunato e moralmente discutibile. È molto umano: non del tutto buono e non del tutto cattivo. Ma amo anche Drusilla, Juliet Landau la interpreta così bene. Per certi versi è fragile, ma è anche spaventosamente potente; piange per cose come le bambole e ha bisogno che qualcuno si prenda cura di lei, ma poi uccide solo con un’unghiata, ed è emotivamente instabile – ansiosa, depressa e per un po’ non mangia. Il mondo sembra quasi troppo per lei. 

Ho sempre amato l’idea che Lydia desiderasse essere Buffy. In un certo senso, guardare Buffy è per lei una forma di autolesionismo: sta guardando una serie tv su una donna che uccide i vampiri! Ma credo che il suo personaggio preferito sarebbe Joyce, la madre di Buffy. Lydia ha un rapporto difficile con la sua di madre, ma la ama profondamente. Posso immaginarla che guarda, in Buffy, questa rappresentazione idealizzata, quasi troppo perfetta, di una madre; posso immaginarla mentre, con gli occhi fissi sullo schermo, desidera così tanto che anche sua madre sia come Joyce.