“Fuori dalle righe”: tra tutte le definizioni che potremmo trovare per descrivere l’opera, il personaggio e la persona di Andrea G. Pinketts, pseudonimo di Andrea Giovanni Rodolfo Pinchetti, nato nel 1960 e morto a Milano alla fine del 2018, questa potrebbe essere una delle più azzeccate.
Definirlo solo “autore di noir”, ad esempio, non gli renderebbe giustizia, perché i suoi libri, che pure rientrano nel genere, sanno essere anche molto altro. Lo stile, anzitutto, non è quello classico di un romanzo noir: leggere Pinketts significa lasciarsi travolgere da continui giochi di parole, aforismi e da un’ironia dissacrante e a tratti grottesca.
A cominciare dal suo primo libro, Lazzaro vieni fuori, pubblicato originariamente nel 1991. Il protagonista Lazzaro Santandrea si ritrova detective per caso il giorno in cui, facendo ritorno a Bellamonte, località del Trentino in cui ha trascorso molte estati da ragazzo, scopre che qui è stato ucciso un bambino. Trovare il colpevole, allora, diventa soprattutto un dovere morale.
A ben vedere, come scrive Andrea Carlo Cappi nella prefazione alla nuova edizione, «Lazzaro, vieni fuori è in pratica un manuale di istruzioni per l’uso di Andrea G. Pinketts». E lo stesso protagonista, in fondo, ricalca molti dei caratteri del suo autore, quasi che Pinketts si confessasse attraverso di lui o creasse sulla pagina un’estensione di sé, un alter-ego che finisce per essere più ego che alter: consapevole, irriverente, sagace.
Non a caso, Pinketts è stato anche giornalista investigativo: i suoi reportage – come quelli pubblicati su «Esquire» e su «Panorama» – e il suo lavoro hanno aiutato a fare chiarezza in diversi casi di cronaca negli anni Novanta. I tratti distintivi di Pinketts – il sigaro, il cappello, la passione per i bar – sono poi gli stessi di Lazzaro: né l’uno né l’altro possono farne a meno.
Nel Vizio dell’agnello, il suo secondo libro, pubblicato per la prima volta nel 1994, si ritrova lo stile agile e incisivo, ma è Milano a fare da sfondo alle avventure di Lazzaro, la “Milano da bere” degli anni Ottanta, «malata, come forse lo sono tutte le città». Perché «ci sono speculazioni, prostituzione minorile, lotte fratricide per un assessorato, emarginazione, droga. È banale, ma ci sono. Compromessi, mafie, indifferenza, cani abbandonati e amici senza futuro».
In questa circostanza Lazzaro, che ancora non sa cosa fare della sua vita, si improvvisa dottore sotto mentite spoglie. È il Dottor Totem, specialista in tabù. Sul suo biglietto da visita campeggia la scritta Dottor Totem. Problemi psicologici. Come commenta il Pogliaghi, fraterno amico del protagonista, «da come era stampato non si capiva se il dottor Totem avesse problemi psicologici o se si occupasse di quelli degli altri». Nel suo studio (che in realtà è l’appartamento della nonna) accoglie persone affette da disagi di varia natura, trasformandosi di volta in volta in cartomante, psicologo, sessuologo, pranoterapeuta. Ancora una volta, non si va troppo lontano dalla realtà: Pinketts si autodefiniva «specialista in situazioni d’emergenza», o, citando George Bernard Shaw, «un predicatore travestito da saltimbanco».
Fernanda Pivano, madrina putativa, disse che Pinketts aveva il senso della frase, che fosse uno dei pochi autori italiani postmoderni. Senz’altro, con la sua scrittura, ha raccontato un’epoca: ha smontato e ribaltato luoghi comuni vecchi e nuovi, tormentoni televisivi e pubblicitari; ha ridato vitalità alle parole, giocando con i loro significati. È riuscito a spingersi al di là delle abitudini rassicuranti e delle direzioni preimpostate e sicure: a trovare il suo spazio fuori dalle righe.